Una risata non vi seppellirà

Di

francesco Muzzopappa

Cominciamo col dire che questo articolo è vietato ai maggiori di anni 12, per cui se avete 50, 70 o 130 anni, per favore allontanatevi subito.
Anzitutto devo confessarvi una cosa: quando ho chiamato mia madre (una maestra elementare in pensione) per dirle che avrei scritto questo articolo sulla narrativa per ragazzi, nella mezz’ora successiva non sono riuscito a parlarle d’altro. Sono stato investito da un’ondata di libri letti e titoli rubati dalla biblioteca scolastica (non si ruba in biblioteca) da restarci secco. Quando avevo la vostra età adoravo i fumetti della Stefi di Grazia Nidasio: sapevano raccontarmi l’amicizia, la scuola e l’ambiente senza farmi la lezione su amicizia, scuola e ambiente. Divoravo Topolino, i lavori di Cavazzano, le storie attorno al fuoco scritte da Cimino. Mi piacevano le filastrocche di Gianni Rodari, di cui ricordo interi passaggi del suo Favole al telefono: su tutti, la famosa tabellina del tre, che so ancora recitare a memoria (se ancora non lo sapete, tre per dieci = pasta e ceci). E sono quasi morto dal ridere sulla composizione delle caramelle multivitaminiche della Fabbrica di cioccolato di Dahl. Ma proprio defunto.
Mi piaceva leggere testi che mi facevano ridere, perché ridere mi faceva stare bene.
Crescendo ho purtroppo scoperto che usare l’ironia, soprattutto in narrativa, è sconveniente.
Se un libro fa piangere, evviva. Se un libro fa ridere, è probabile arrivino i Guardiani della Tristezza per puntarti il dito contro e farti sentire in colpa per il resto della tua vita.
Ho quarant’anni suonati (quindi non dovrei leggere quest’articolo, e infatti mi limito a scriverlo) e devo ammettere che non ho ancora ben capito chi ha inventato questa regola e quali problemi abbia con la felicità. Devo però confessare che non mi ha mai convinto fino in fondo, e con il tempo mi sono riscritto le regole da me. Ho imparato (e ve lo posso garantire) che non sempre si viene capiti, ma non per questo ciò che fai è stupido o inutile o non merita l’attenzione della gente.
Un paio d’anni fa ho dovuto leggere per lavoro un paio di libri complessi, scritti da gente con un vocabolario del 1820. Quando ne sono uscito, stordito e dimagrito, sono andato in libreria e d’istinto ho comprato titoli che mi avrebbero riportato al mondo, e tra questi anche alcuni testi divertentissimi che vi consiglio, come Il diario segreto di Adrian Mole di Sue Townsend, Mio fratello è un supereroe di David Solomons, Boom! di Mark Haddon e Gli spaventevoli egizi della collana Brutte Storie (tutto il ciclo è strepitoso).
Ho riso come un matto.
Di tanto in tanto mi capita di visitare le scuole per raccontare il mio lavoro.
Un giorno, al termine di una lunga chiacchierata con una classe, mi si avvicinò un ragazzo della vostra età (lo chiameremo Luigi), felice di farmi leggere una lunga filastrocca in cui si divertiva a giocare con i cognomi dei suoi compagni. “A casa non vogliono che scriva queste cose”, confessò abbassando lo sguardo, “dicono che scrivo sciocchezze”.
Be’, posso assicurarvi che non si trattava affatto di sciocchezze: accordare le parole, metterle in rima e rendere il testo scorrevole e divertente è tutt’altro che sciocco. È anzi parecchio complicato, soprattutto per un ragazzino dell’età di Luigi. Dobbiamo sentirci liberi di scrivere (e leggere) quel che ci va, senza limiti. Come scrive Neil Gaiman, “le idee sono come le erbacce: saltano fuori dove meno te lo aspetti e sono difficili da tenere sotto controllo”.
Far ridere è difficile: è una specie di triplo salto mortale all’indietro su pattini a rotelle. L’umorismo fa leva sul bizzarro, sulle incongruenze della vita (scusate l’espressione difficile, non l’ho capita nemmeno io). E man mano che si cresce, la nostra idea di bizzarro cambia. Se scrivo un libro umoristico per adulti devo usare stratagemmi che non valgono per un romanzo divertente per ragazzi, dove ad esempio uso moltissimo nonsense, la prima forma di umorismo con cui veniamo a contatto da piccoli attraverso le favole. Fateci caso: vi siete mai resi conto che Cenerentola non viene riconosciuta dalla faccia ma dalla scarpa? E che Cappuccetto Rosso non ha un nome di persona ma il nome di un indumento? E che nei boschi ci sono lupi in grado di truccarsi perfettamente da nonna?
La narrativa umoristica ha molti punti in comune con la scrittura per ragazzi, anzitutto una guerra totale alla noia. È fondamentale, infatti, capire con estrema precisione quando è il momento di chiudere un discorso, prima che diventi troppo lungo e barboso. Ecco perché questo articolo, per esempio, finisce qui.

© Francesco Muzzopappa

(articolo pubblicato su Robinson di Repubblica il 6 giugno 2020)

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