Da grande voglio scrivere libri che fanno ridere! Otto domande a Francesco Muzzopappa

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Come, quando perché si decide di scrivere solo libri umoristici? Qual è la miccia che si accende e che ti fa desiderare di scrivere libri che facciano ridere a crepapelle? L’abbiamo chiesto a Francesco Muzzopappa, scrittore di libri per ragazzi, che da anni lavora con un solo obiettivo: far ridere, scrivendo “cose belle e divertenti”.

Che cosa fa nel quotidiano uno scrittore? Com’è la tua giornata?

Se fino a un paio di anni fa mi svegliavo molto presto al mattino per scrivere (evitando scocciature come mail, social, messaggi ed emoji di cagnolini felici che finivano inevitabilmente per deconcentrarmi), adesso mi sveglio grosso modo alle sette, preparo una buona colazione e dopo la doccia scrivo finché ha senso farlo, finché ho le forze per scrivere cose belle e divertenti (che il giorno dopo inevitabilmente butto per metà, perché non funzionano). Di solito non scrivo meno di 12mila battute al giorno, sennò entro in paranoia, mi sento inadeguato. Ho un gigantesco “io giudicante” che mi punta il dito contro, se non svolgo i miei doveri. Una vitaccia.

Qual è la cosa che ti piace di più del tuo lavoro?

La fase iniziale: l’ideazione del progetto, quando ancora tutto mi sembra facile e raggiungibile. La prima stesura è sempre la più divertente, quella in cui inserisco mille idee e inevitabilmente emergono tutti i problemi, i buchi di trama, gli intrecci che non funzionano, i personaggi inutili. E poi arriva la riscrittura e l’estrema concentrazione, la cosa che mi diverte meno. Se potessi limitarmi a inventare storie e farle scrivere a un tizio bravo, probabilmente mi divertirei di più.


Qual è la parte più noiosa del tuo lavoro?

La rilettura del testo. È risaputo: gli errori emergono quando si stampa su carta. A video è difficile saltino fuori. Così ogni volta mi ritrovo tra le mani 300 pagine tutte da correggere. Ogni errore deve essere poi rivisto anche nel file elettronico, per cui si tratta di un doppio lavoro, noiosissimo. E a volte occorrono anche due o tre riletture. Occorre molta disciplina, ma che noia.


Da ragazzo hai sempre voluto fare questo lavoro?

Avrei voluto fare il cuoco. Compravo ogni singolo numero di GuidaCucina, ma poi mi sono reso conto che non faceva per me. Odiando i broccoli, i cavoli, i funghi, il formaggio, le rape, le cozze e molto altro, sarebbe stato difficile mettere insieme un piatto decente. Così mi sono chiuso in una stazione radiofonica del mio paese e ho cominciato a fare il DJ, lavorando anche in discoteca. Tutto sommato è meglio che scriva.

Come quando e perché hai deciso che far ridere con le parole sarebbe stato il tuo lavoro?

A Milano ho frequentato la scuola di scrittura di Raul Montanari, un vero Maestro che per primo ha notato la mia capacità di far ridere su carta, faccenda complicatissima. Lui mi ha spinto a crederci, a scommetterci. E io ci ho creduto lavorandoci tantissimo. Mi piace far ridere chi legge le mie cose, mi piace che il mio cognome buffo venga associato a testi che regalano leggerezza, spensieratezza e riflessioni mai poste in maniera pesante. Occorrono molto lavoro e dedizione per risultare divertenti in maniera naturale.


Da piccolo chi erano i tuoi “idoli”, chi ti ha ispirato a scegliere questa strada?

Sono fortunatamente nato e cresciuto in un momento in cui la satira e la parodia erano centrali nei programmi televisivi e radiofonici. Parlo di testi ben scritti con una notevole cultura umoristica di base. Poi sono arrivati i libri giusti, all’università ho scoperto i grandi classici di Swift e Sterne, e li ho ammirati tanto. L’umorismo è un veicolo per dire altro, ma maneggiarlo non è facile perché ci sono tante tecniche che devono restituire risultati, come dicevo, molto naturali. Deve sembrare non ci sia stato alcuno sforzo nel far ridere (nonostante lo sforzo ci sia, eccome). A dir la verità non sapevo avrei intrapreso questa strada, io da grande volevo fare il traduttore, ho preso una laurea apposta per farlo. Poi, per puro caso, ho cominciato a scrivere i primi racconti, non sempre ironici, mettendomi alla prova con tanta severità. E poi piano piano è arrivato il resto.

Qual è il libro di cui ti sei perdutamente innamorato da ragazzo?

I libri mi annoiavano, non avevo ancora trovato la mia strada da lettore, forse perché i classici letti a scuola erano completamente sbagliati per il piccolo Muzzopappa patito di videogiochi. Ero innamorato dei fumetti, della Stefi di Grazia Nidasio, dei Ronfi di Adriano Carnevali, delle storie di Cavazzano e Cimino. Sono stati i fumetti a spingermi tra le pagine dei libri più corposi, a riscoprire Rodari (adorato durante l’infanzia) e a riprendere fiducia nella narrativa.


Quale consiglio pratico daresti a un ragazzo o una ragazza che vogliono diventare scrittori umoristici?

Leggere molto, imitare tanto e alla fine trovare la propria voce come autori. Si passa sempre attraverso l’imitazione di testi che ci hanno riempito cuore e giornate, prima di trovare la propria strada. Nei libri, invito sempre a sottolineare i passaggi che ci fanno ridere e poi prendersi del tempo per capire perché ci hanno fatto ridere, isolando per bene i singoli meccanismi che portano alla risata. Bisogna poi pensare a storie divertenti, molto facili da spiegare, cominciare ad applicare i meccanismi della risata e pian piano costruire piccoli racconti, poi narrazioni man mano più lunghe, e un pezzo alla volta riscrivere la storia della letteratura mondiale a colpi di bestseller umoristici. Esattamente con questo grado di megalomania. Restando però umili finché non si riesce nello scopo.

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